Vita, morte e rinascita del distretto calzaturiero marchigiano
Ne hai mai sentito parlare? I marchigiani non ci fanno più caso, ma fa sempre sorridere sentire parlare di questa regione e di alcune zone in particolare come della “Shoes Valley”, il territorio in cui la scarpa è monumento alla produttività di una comunità intera.
Ma come nasce questa storia, che è un po’ anche la mia e quella della mia famiglia? Come si è trasformata nel tempo? Quali sviluppi può avere in futuro?
Te lo racconto in questo articolo.
Cos’è un distretto industriale?
Prima di cominciare, un doveroso chiarimento. Un distretto industriale è un agglomerato di imprese localizzate in un territorio circoscritto e specializzate in una o più fasi di un processo produttivo.
Proprio come accade nelle Marche, in cui è localizzata un’intera filiera che dalla produzione delle suole a quelle dei tacchi, passando per l’orlatura, conduce alla scarpa finita.
Quello delle Marche è solo uno dei distretti italiani, che in realtà sono molti e dislocati in diverse regioni.
I distretti hanno delle caratteristiche dominanti, come la fitta rete di relazioni di carattere economico e sociale, l’identità collettiva e il senso di appartenenza al territorio e al distretto in sé. Il modello si basa sulla stretta interconnessione che si instaura tra il tessuto industriale e quello cittadino, legati fittamente ma armoniosamente.
L’origine dei distretti calzaturieri marchigiani
Da dove nasce questa tradizione che ha modellato l’economia di una regione intera in maniera permanente?
Le origini dei distretti marchigiani risalgono a tanto, tanto, tempo fa; alcune attestazioni risalgono perfino al ‘300, segnalando l’esistenza di piccole botteghe che producevano scarpe classiche.
Per parlare di vera e propria industria bisognerà aspettare i primi decenni dell’800: nei comuni di Montegranaro, Monte Urano, Monte San Giusto e Sant’Elpidio a Mare si diffonde la produzione delle Chiochiere, le pianelle realizzate in stoffa o pelle, senza tacco, con la suola leggera in pelle.
Nel 1870 viene introdotta la macchina a pedali per cucire le tomaie, cosa che permetterà di aumentare la produzione e sostituire quella sorta di pantofole con scarpe da uomo e da donna più economiche.
Il fenomeno dei distretti ha avuto il suo massimo splendore nel secondo dopoguerra, con la ricostruzione e l’arrivo degli investimenti da oltreoceano, che portarono ad una primavera imprenditoriale mai vista prima.
È in questi anni che l’area dedita alla realizzazione di calzature nelle Marche si estende, andando a ricoprire quasi tutta l’attuale provincia di Fermo e parte di quella di Macerata. Ogni area trovò la sua specializzazione, caratteristiche che, per certi versi, possiamo ritrovare ancora oggi:
- intorno a Porto Sant’Elpidio si producevano maggiormente calzature da donna;
- nei pressi di Montegranaro si concentrava la produzione “uomo”;
- nell’area di Monte Urano si concentrava invece la produzione “bambino”
Lo sviluppo dei distretti industriali cresce quindi a dismisura negli anni ‘50, stimolato dalla crescita del reddito e dal conseguente aumento della domanda di beni di consumo, che continua a crescere e si differenzia negli anni Settanta e Ottanta.
I calzaturifici marchigiani cominciano a esternalizzare molte operazioni, fanno la loro comparsa “i terzisti”, altamente specializzati. È così che nascono le piccole e medie imprese specializzate in ogni passaggio della filiera.
La nascita dell’azienda della mia famiglia
È negli anni ’70 che nasce l’azienda dei miei genitori. All’inizio avevano un loro marchio, partecipavano alle fiere di settore e vendevano prodotti pensati e realizzati per loro e da loro.
Poi diventarono terzisti per diversificare l’attività, come tanti altri qui nelle Marche, specie quando i grandi brand cominciarono a fare capolino per accaparrarsi i migliori artigiani.
Ma chi è il “terzista”? È chi realizza in conto terzi, ovvero per un altro brand, spesso molto più conosciuto. Il nome dei miei genitori, insieme a quello di tanti altri artigiani, non compariva da nessuna parte: eravamo i silenziosi garanti della qualità.
Gli anni ‘90 sono stati per la nostra azienda e per la nostra famiglia abbastanza sereni. L’azienda contava circa 30 dipendenti. La fatica era davvero tanta, i miei hanno ancora oggi la classica mentalità tutta marchigiana del lavoro a cui si sacrifica una vita intera, del “tribolare” come mantra quotidiano.
Una delle peculiarità del territorio e della mia famiglia è il legame con la cultura contadina, che è ancora oggi molto forte. Accanto alla fabbrica sorgeva la casa degli artigiani – chi lo sa quale delle due sia nata prima. Intorno l’orto e i campi per allevare animali. Le Marche sono riuscite ad ospitare enormi distretti industriali senza creare le tipiche periferie e i sobborghi extraurbani tipici delle grandi metropoli. I marchigiani hanno adottato un sistema di produzione moderno, senza per questo perdere la dimensione familiare.
Io ero piccola, solo a posteriori ho capito che quelli erano stati “gli anni d’oro” del distretto calzaturiero marchigiano. Ricordo le leggende che circolavano su alcuni imprenditori di Montegranaro: si diceva che avessero maniglie d’oro in casa e la Ferrari in garage. Suggestioni popolari o meno, il benessere era percepibile e nessuno aveva intenzione di nasconderlo.
La grande crisi
Ad un tratto, qualcosa si rompe. Arriva la recessione alla fine degli anni ’90, con la riduzione della domanda dei prodotti Made in Italy. Si aprono nuovi mercati prima di allora sconosciuti e, di conseguenza, arrivano nuovi concorrenti dall’Europa Orientale e dall’Asia. Le micro e piccole imprese subiscono questi cambiamenti, accusano il colpo, ne escono devastate – quando ne escono.
Questa crisi, tutt’altro che imprevedibile, trova nelle Marche un sistema produttivo che già presentava delle falle.
Tutto precipita: la bramosia degli imprenditori di avere sempre di più, al minor costo e nel minor tempo li porta a delocalizzare, addirittura ad insegnare la tecnologia e i metodi di produzione nei Paesi dell’Est, dove la manodopera aveva dei costi disumani.
Ordini annullati, rappresentanti e clienti spariti nel nulla, con materiali già acquistati e operai che avevano già lavorato a quelle collezioni che non avrebbero mai visto la luce.
Non c’erano soldi per i dipendenti, ma neanche per pagare le bollette. La storia della metà dei calzaturifici marchigiani è finita così, senza gloria e senza onori dopo anni di sacrifici.
E oggi?
I segnali di ripresa ci sono stati, timidi e incostanti. A peggiorare il tutto c’è stato prima il terremoto, che ha danneggiato gravemente infrastrutture e abitazioni, e poi la pandemia dello scorso 2020.
Secondo l’Istat, nel 2020 il settore tessile e calzaturiero italiano ha perso il 28,5% rispetto all’anno precedente. Più del 30% della produzione italiana si concentra nella provincia di Fermo e Macerata, con un giro di affari che prima del Covid si aggirava intorno a 2 miliardi di euro l’anno.
Al 31 ottobre 2020, 51 aziende hanno chiuso i battenti.
Il rischio non è solo chiudere, ma è anche smarrire il patrimonio di relazioni e competenze artigianali, che sono alla base del successo di questo modello produttivo.
Quale futuro per la tradizione calzaturiera?
A cosa ci ha portato l’ingordigia degli imprenditori che ci hanno preceduto?
A perdere il valore di ciò che facciamo, l’idea di benessere, quello vero, non quello delle maniglie d’oro in casa. Quello che ti permette di vivere una vita dignitosa economicamente e rispettosa verso te stesso e l’ambiente che ti circonda.
Un distretto calzaturiero non si può distruggere da un giorno all’altro. È un ecosistema economico e produttivo che ha radici troppo profonde per essere sradicate con una folata di vento.
Si può sperare, però, che le sue parti si possano rigenerare, trasformandosi e diventando le basi per altre forme di vita economica, prima neanche immaginabili. E forse il fattore umano che farà la differenza, quello che ha caratterizzato da sempre la nostra comunità di artigiani. Quello che riesce a trasformare i “competitor” in alleati, che cooperano insieme per cambiare il sistema e renderlo più contemporaneo e davvero sostenibile.
Produrre qui nella fabbrica dei miei, dare lavoro alle persone che vivono nel mio stesso paese, scegliere fornitori del distretto e far riemergere la tradizione del lavoro che ci ha caratterizzati.
Non si può tornare indietro? Allora andiamo avanti, recuperando solo il buono che c’è del nostro passato.