Come si reagisce al cambiamento? Il nostro percorso

Resilienza: è una parola di cui abbiamo abusato tanto in questi anni. Per quanto il concetto mi sia sempre piaciuto, questa parola si è svuotata di senso, come ogni cosa che viene ripetuta fino allo stremo. 

Ragionando in questi anni però, mi sono resa conto che perfino il suo significato non faceva più al mio caso. Il termine resilienza ha origine scientifiche, e viene usato in fisica e in ingegneria per indicare tutti quei materiali che hanno la capacità di resistere ad un urto, adattarsi e ritornare alla forma iniziale assorbendo e sfruttando l’energia rilasciata dopo la deformazione. 

Ecco cosa non mi convinceva: tornare alla forma iniziale. Non si torna mai come prima, lo stato iniziale è sempre deformato, modificato, si attraversa una crisi per rinascere, non per imitare lo stato di quiete iniziale. 

E in questo articolo voglio raccontarti quello è accaduto a noi, in questi anni, e come abbiamo reagito. 

Il primo grande cambiamento: la crisi del settore calzaturiero 

Sono nata e cresciuta tra pellami, mastice, macchinari strani, odori che caratterizzavano la fabbrica dei miei in cui io gironzolavo fin da piccola. All’epoca non avrei mai pensato di lavorare lì, in quel posto che mi sembrava così rumoroso e confusionario. 

Con il tempo, invece, ho cominciato a lavorarci anch’io, e pian piano ho rilevato le crepe e le contraddizioni. Sono andata a studiare economia a Bologna, la città che mi ha rubato il cuore, ma ancora la mia terra mi chiamava a sé. Per quanto fossi appassionata di numeri e strategie, la mia “chiamata” era verso un mondo creativo, che poteva trovare sfogo proprio a casa mia. 

Ricordo ancora l’estate del 2008 era l’anno della mia tesi, che (ovviamente) ho dedicato alle scarpe: “Analisi dei costi di un prodotto calzaturiero” questo era il titolo del mio lavoro.  Facendo ricerca ho collezionato sempre più informazioni e ho capito che qualcosa non funzionava come avrebbe dovuto. 

In fabbrica il malumore cresceva, la crisi era insistente e la situazione cominciava a diventare frustrante: i miei genitori, mio fratello e io lavoravamo 12 ore al giorno come sempre, ma senza i risultati aspettati.

Ogni giorno combattevamo con l’angoscia dei mancati pagamenti e del recupero crediti e di conseguenza, con la paura di non poter pagare gli stipendi dei nostri dipendenti e le fatture dei nostri fornitori. Fino a che un giorno, in preda all’ansia, ho capito che quella non era vita: avevamo bisogno di trovare un’alternativa, e anche in fretta. 

La scelta più ovvia era produrre direttamente noi le scarpe, smettendo di fare “i terzisti” per altri brand. Prima, però, c’era da convincere mio padre. Lui che aveva sempre prodotto in grandi quantità, lui che aveva sempre acquistato enormi stock di materiali, lui che aveva un magazzino molto grande la cui gestione ci portava via tanto tempo e denaro. Abbiamo combattuto contro il classico “si è sempre fatto così”, ma finalmente io e Gian Luca abbiamo convinto tutti: per poterci distinguere dovevamo andare nella direzione opposta.

Produrre scarpe in edizione limitata, uniche, in piccolissime quantità. Per potermi distinguere dovevo creare qualcosa di speciale, cucito su misura, che andasse contro le grandi quantità di prodotto venduto a poco prezzo offerto dalla concorrenza. 

Così è nata La Scarpetta di Venere: il 21 novembre 2009 ho aperto il mio primo negozio a Civitanova Marche. Dentro, c’erano le nostre prime creazioni: scarpette coloratissime, realizzate in serie limitata con una numerata di 6/10 paia per modello. 

Avevo solo 24 anni, se ci penso oggi ancora non ci credo. Quel negozietto è stato una piccola goccia nell’oceano, la speranza che potevamo ricominciare. Ero consapevole di aver fatto una scelta coraggiosa, all’epoca non sapevo che ne avrei fatte tante altre negli anni successivi.

Una pandemia da fronteggiare 

Negli anni successivi abbiamo costruito il nostro mondo, passo per passo. Abbiamo aperto il negozio di Sirolo, chiuso quello di Civitanova con la consapevolezza che se si vuole crescere bisogna fare quel passo più lungo della gamba.

Da lì, era il 2013, la missione era chiara, dovevamo andare oltre e farci conoscere, far provare le nostre scarpe e raccontare come e dove venivano realizzate,così abbiamo aperto il primo temporary a Bologna, che è diventato un negozio vero e proprio nel 2017, l’anno in cui sono diventata mamma e non era più così semplice spostarsi con leggerezza.

La produzione era ormai ben avviata, la crescita costante e programmata, nel 2018 abbiamo raddoppiato il fatturato degli anni precedenti.

Fino a che non è arrivata la pandemia da Covid-19. 

Per noi è stato davvero un duro colpo. La quarantena forzata ci ha obbligato a metterci lì, davanti allo specchio, e a riflettere. Non potevamo FARE, un’azienda artigiana che non poteva utilizzare le mani e produrre.

Mentre provavamo a rassicurarci a vicenda dicendo che “andrà tutto bene” io morivo di paura: i negozi chiusi, i piani programmati su cui investire, le scadenze comunque da pagare.

Dopo il panico iniziale, però, ci siamo rimboccati le maniche. Prima di tutto, non potevamo fermarci. Insieme a Francesca, la nostra collaboratrice esperta di grafica, abbiamo messo a punto una sorta di campionario virtuale: abbiamo digitalizzato tutti i pellami a nostra disposizione, tutti i modelli, tutte le combinazioni. L’unica possibilità era quella di vendere online qualcosa che era nella mia testa ma non ancora realizzato, la nostra fortuna è stata quella di aver già un sito con vendita online.

Abbiamo quindi venduto tramite il sito online con il progetto che appena saremmo rientrati in fabbrica avremmo prodotto tutte le scarpe già vendute e continuato la produzione di quelle già programmate.

Abbiamo lavorato ancora di più sui social, raccontando quello che ci stava accadendo, oltre che i nostri prodotti. Abbiamo fatto delle dirette, abbiamo condiviso paure e speranze con altre artigiane e molte clienti. Il fatturato del 2020 è quadruplicato rispetto al 2019 e cresce costantemente ogni anno.

Sono stati proprio questi cambiamenti a destarmi e a ridare luce alla voglia di cambiamento che ha portato ad una scelta difficile, sofferta, ma necessaria per seguire la visione: abbiamo chiuso il negozio di Bologna. La priorità era abbattere i costi, e restare il più possibile flessibile per essere capaci di cambiare sì, ma  per tornare allo stato iniziale ebbene per evolverci.

Abbiamo scelto di aprire solo dei pop-up, dei negozi temporanei che ci permettessero di essere a Bologna, ma anche a Milano, a Verona, a Roma, a Firenze, ovunque volessimo andare. 

E anche questa, si è rivelata una scelta preziosa. Negli ultimi due anni ho incontrato tantissime clienti e artigiane che conoscevo solo virtualmente, ed è stato qualcosa di grandioso. Era l’occasione per provare i modelli che molte avevano visto solo online, e che poi successivamente potevano acquistare con sicurezza nel nostro e-commerce. Ma non solo. 

Era l’occasione per abbracciarsi, per trasformare una relazione digitale in qualcosa di ancora più autentico. È una scelta che, seppur presa con il cuore pesante, non mi pentirò mai di aver fatto.

E oggi? 

E così, siamo al 2023. Cosa ci aspetta nel futuro? Ancora non possiamo saperlo. Stiamo lavorando per assicurarci la nostra visione aziendale, ma per farlo abbiamo dovuto mettere tutto (di nuovo) in discussione. Negli ultimi mesi abbiamo studiato la struttura della nostra azienda, i flussi di lavoro, i processi, abbiamo analizzato i costi in maniera maniacale, cosa che fino ad oggi non era ancora stata fatta. 

Ne sta venendo fuori un’idea più chiara di chi siamo, che ci serve per mettere a fuoco chi vogliamo essere. 

Quindi, bentornato cambiamento. Non siamo resilienti, non vogliamo tornare allo stato iniziale, mai. Vogliamo scorrere, adattarci, fluire, provando sempre a creare qualcosa che ancora non c’è. Provando a dare vita nuova a questo sogno iniziato 14 anni fa.